Il contributo di Carlo Rugiu, medico-chirurgo, sull’emergenza sanitaria che ha segnato il 2020.

Che cosa abbiamo imparato dalla pandemia? In particolare, quali differenze abbiamo osservato fra Lombardia e Veneto ?

Nonostante i segnali di allarme provenienti dalla Cina alla fine di gennaio, complici la mancanza di un piano per fronteggiare la pandemia in molte regioni ed il ritardo nel prendere decisioni che avrebbero impattato favorevolmente su alcuni cluster (si pensi alle infinite discussioni e scarico di responsabilità fra Governo centrale e Amministrazioni Regionali nel dichiarare “zone rosse” alcuni Comuni della Lombardia, ai provvedimenti spesso tardivi e contraddittori, spesso in competizione fra Governo e Regioni ), possiamo tranquillamente affermare che il virus ci colse di sorpresa.

Dal punto di vista clinico, dopo quattro mesi era abbastanza evidente come la malattia da coronavirus fosse trattabile con successo se presa all’inizio…, ma per fare questo era necessario che fosse già radicata e collaudata un’articolata organizzazione di Medicina Territoriale. A tal riguardo, la pandemia ha evidenziato come esistessero, potremmo dire “a livello sub-clinico”, disomogeneità e differenze nelle strutture sanitarie e nelle diverse Organizzazioni Sanitarie Regionali, sia per quanto riguarda la Medicina del Territorio che per l’assistenza Ospedaliera.

Abbiamo osservato indicatori della gravità della pandemia molto diversi in Veneto e in Lombardia, due regioni abitate da popolazioni con caratteristiche socio-demo-grafiche sostanzialmente simili: età media Lombardia vs Veneto 45.9 vs 45.4 anni; aspettativa di vita: 84 anni per entrambe . Nella nostra regione la Medicina Territoriale ha fatto da baluardo e da filtro alla pandemia rispetto a quanto successo in Lombardia, contribuendo ad arginare i ricoveri in Ospedale ( 25.1% in Veneto vs 51.5% in Lombardia ), a limitare i contagi e la mortalità nella cittadinanza (tasso di mortalità per 100.000 abitanti : 186 in Veneto vs 445 in Lombardia ) e fra gli Operatori sanitari ( 4.4 % in Veneto vs 14.3 % in Lombardia ).

I Medici di famiglia hanno tenuto in isolamento domiciliare in Veneto una percentuale di pazienti molto più alta (74.9%) rispetto a quanto accaduto in Lombardia (43.5%) .

I dati, nel loro complesso, dimostrano come l’emergenza sanitaria nella vicina Lombardia si sia ben presto drammaticamente trasformata in un’emergenza umanitaria.

Questa situazione è stata segnalata tempestivamente alla comunità scientifica in una lettera inviata al New England Journal of Medicine, la più prestigiosa rivista scientifica di medicina, da Mirco Nacoti, a nome di un gruppo di medici della Rianimazione dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. Egli sottolineava come gli allarmi che preannunciano la crisi umanitaria fossero già presenti nella provincia di Bergamo. Essi sono sostanzialmente due : il primo allarme è quando le risorse che sono a disposizione sono molto inferiori ai bisogni; il secondo elemento è che in queste situazioni diventa fondamentale la medicina di comunità, e non le terapie intensive, sulle quali si è scaricata l’ondata di pazienti nelle prime settimane di pandemia nel Bergamasco. «L’epidemia – sostiene Nacoti – si ferma con una buona risposta del territorio, proteggendo gli operatori sanitari».

Al contrario, nel Veneto il sistema Ospedaliero non è collassato, ed ha resistito all’ondata pandemica sostanzialmente grazie alla diga della Medicina del Territorio: questa osservazione conferma, qualora ve ne fosse ancora bisogno, che la tenuta del SSN si regge su due pilastri che sono il sistema ospedaliero e la medicina del territorio.

Per spiegare il differente impatto della pandemia sul Sistema Sanitario Regionale, bisogna cercare di capire quale fosse la situazione in Lombardia e Veneto alla fine di gennaio.

Quando è scoppiata la pandemia, sono emerse le differenze nelle organizzazioni sanitarie regionali: dei due Sistemi, quello che aveva una medicina territoriale ben attrezzata e radicata, il Veneto, è riuscito ad affrontare le difficoltà, contenendo le perdite.

La Lombardia veniva da decenni nei quali la Medicina Territoriale era stata sistematicamente smantellata, con una visione della Sanità ospedalocentrica, che aveva privilegiato in particolare la sanità privata; vale la pena sottolineare come il numero di posti letto per acuti fosse sostanzialmente identico in Lombardia rispetto al Veneto (3.05 rispetto a 3.01 per mille abitanti): quindi, quanto accaduto nella vicina Lombardia non è dipeso da una carenza di posti letto. In Lombardia, però, tutta la massa di pazienti si è rivolta direttamente alle strutture ospedaliere, sovraccaricando le risorse umane e la disponibilità di posti letto.

Quest’ultima in Lombardia era in una situazione di disagio latente, come evidenziato dai seguenti numeri: «in Lombardia c’è un laboratorio di Sanità Pubblica ogni tre milioni di abitanti, nel Veneto 1 ogni 500.000; in Lombardia ci sono otto dipartimenti di Prevenzione pubblica ( 1 ogni 1.2 milioni di cittadini), contro i nove del Veneto (1 ogni 500.000 persone)».

«Anche l’assistenza domiciliare è “meno presente” in Lombardia, dove 1.4 persone /100.000 abitanti sono seguite dai servizi di assistenza e cure a domicilio, contro le 3.5 persone /100.000 abitanti del Veneto», afferma Riccardo Iacona.

In Lombardia, si sono poi aggiunte variabili specifiche legate alle attività produttive, al pendolarismo dei lavoratori e alla concentrazione di alcune attività economiche, aggravate da alcuni eventi sportivi di massa, svoltisi ugualmente nonostante fosse facile prevedere che gli assembramenti dei tifosi avrebbero amplificato il contagio .


Come ci siamo comportati durante la pandemia ?

Come medici, ci siamo dovuti abituare rapidamente a un diverso modo di rapportarci con i pazienti; abbiamo lavorato coperti da tute, visiere, guanti (troppo spesso non disponibili, pensiamo a quanti Medici di famiglia non hanno avuto un rifornimento di DPI, non hanno avuto un canale di approvvigionamento preferenziale, anzi spesso se li sono dovuti comprare di tasca loro!), con mascherine che ci coprivano il viso e che hanno reso molto più difficile far trasparire le nostre emozioni, mostrare il nostro sorriso ( e noi tutti sappiamo quanto è importante un sorriso o un saluto affettuoso), ancor più in pazienti che per motivi sanitari, dovevano rimanere isolati a domicilio.


Quale Sanità in futuro ?

Le “difficoltà” ad affrontare la pandemia sono senza dubbio il prezzo di una politica del risparmio condotta in Sanità per troppi anni, che ha comportato tagli di posti letto, di personale, e, sopratutto in alcune regioni, scarsa attenzione e organizzazione delle cure territoriali.

È lecito pensare che la partita con il Covid non sia finita; per il futuro dovremo farci trovare “pronti”: sono necessari investimenti importanti per adeguare il SSN, per rinforzare i laboratori pubblici, i dipartimenti di prevenzione e l’assistenza domiciliare. «I 37 miliardi di euro che potremmo ricevere dal MES corrispondono esattamente ai 37 miliardi di tagli nella Sanità negli ultimi 10 anni» , dice Francesco Longo, economista e membro del comitato scientifico di Cergas Bocconi.

«Con i soldi del MES sarebbe possibile avviare un piano di assunzione di 50.000 medici del SSN in vista del loro progressivo pensionamento nei prossimi anni, e un recupero del cronico sotto-organico degli infermieri nel nostro Paese, oltreché programmare un rinnovo del parco tecnologico infrastrutturale nuovi macchinari potrebbero aumentare la produttività, rendendo più efficaci le attività e contribuendo ad accorciare i tempi di attesa», che sono una delle priorità da affrontare nel post Covid.

Ci aspettiamo dal Governo un segnale chiaro e inequivocabile: che la Salute del Paese e il funzionamento del nostro SSN siano considerate una delle priorità della agenda politica dei prossimi mesi.

Un’altra cosa che ci aspettiamo dalla Politica è la condivisione con la classe medica delle scelte di programmazione sanitaria; noi medici dovremo fare la nostra parte, per riappropriarci della Governance della Sanità, per troppi anni lasciata in mano ai politici.

Nel Veneto, questo significherà rivedere i tagli dei posti letto fatti al sistema ospedaliero pubblico a favore del privato convenzionato: la Medicina Ospedaliera dovrà essere ripensata, tenendo conto di come è invecchiata la popolazione (si pensi solo al fatto che nel 1950 gli ultra sessantacinquenni erano tre milioni, oggi sono oltre 17 milioni), quindi, con una particolare attenzione alla prevenzione e agli aspetti geriatrici della Medicina.

La sostenibilità e la sopravvivenza del nostro SSN dipendono anche dal buon funzionamento delle cure primarie, che sono state oggetto di tagli sempre più gravi .

Le strutture territoriali, debitamente potenziate, dovranno interagire da un lato con i Medici di Famiglia i veri “Medici del futuro”, e con gli Ospedali, dall’altro.

Infine, e non è poca cosa, dovrà essere ripensata una nuova Medicina Scolastica, in passato accantonata troppo in fretta, che guardi alle mutate condizioni epidemiologiche e che possa garantire un accesso a Scuola in sicurezza ai nostri figli e ai nostri nipoti.

In conclusione, l’augurio è che queste osservazioni possano offrire spunti per comprendere meglio quanto è successo, per guardare al futuro più serenamente.

Di una cosa sono certo: non dovremo mai dimenticare i quasi 36.000 Italiani, i 180 Medici e i numerosi Operatori Sanitari che sono morti nei mesi scorsi: il nostro impegno quotidiano lo dobbiamo anche a loro.


Riferimenti bibliografici