La riflessione di Silvia Migliaccio, che in Traguardi anima il “tavolo disabilità”, su una discriminazione sottile e spesso inconsapevole, che dietro a sorrisi e attenzioni affettate nasconde pregiudizi difficili da scardinare.

Nel 2016 ho fatto un’interessante esperienza di tirocinio al Museo di Castelvecchio. Iscritta al corso di Laurea Magistrale interateneo in Arte, mi sono proposta per un semestre di lavoro presso la biblioteca d’arte del Museo. Ho presentato la mia domanda, supportata dalla docente di riferimento.

Mi sono presentata al colloquio con il dirigente del Museo. Mi ero preparata un “discorsetto” adatto ad un colloquio motivazionale e dunque: perché sono appassionata di arte, cosa è e cosa dovrebbe essere per me un museo, come mi nuovo fra le pubblicazioni periodiche (abbastanza bene); in quanto si trattava di contribuire a schedare le molte riviste conservate in biblioteca. Giunta anche troppo per tempo, con la mia carrozza, davanti al ponte levatoio del castello, ho atteso che i custodi, vincendo l’imbarazzo di trovarsi di fronte una “carrozzata”, avvertissero il dirigente e predisponessero il non usuale e un po’ labirintico percorso “per disabili” dal piano terra al primo piano, attraverso corridoi, montacarichi, sale e pedane.

Giunta a destinazione, saluto il dirigente e inizio il colloquio. Con mio stupore non mi viene chiesto nulla ciò che mi aspettavo (le motivazioni della mia scelta e le ragioni della mia presenza in quel luogo), ma mi viene innanzitutto sbattuto in faccia – con estremo garbo, per carità…- il problema dei problemi: «Scusi … ma lei per andare al bagno …?».

Ho risposto che nel corso delle quattro ore della mia presenza in sede, forse, una volta sarei dovuta andare a fare la pipì… reazione del dirigente, cortesemente imbarazzatissimo: volto scuro, aggrottar di sopracciglia, grattino alla testa.

«Ma quindi…lei deve essere accompagnata..?».

«No! certo che no! Sono autosufficiente! Mi basta che qualcuno mi indichi dov’è il bagno e magari mi aspetti fuori per riaccompagnarmi in ufficio».

Silenzio. Imbarazzo. «Guardi che non abbiamo il bagno al piano. Bisogna scendere di un piano, uscire in giardino dove c’è la ghiaia, rientrare nel castello, risalire con l’ascensore di un piano e li c’è il bagno accessibile…accessibile, insomma. Certo che non ci sono le maniglie … se lei ne ha bisogno … deve un po’ arrangiarsi».

Io: «Va bene! Fatemi vedere come si arriva al bagno e poi io mi arrangio».

«Si si…ma non è una cosa così semplice».

Morale: nei giorni successivi, iniziato il mio tirocinio e accortesi le bibliotecarie che io procedevo molto – forse troppo – spedita nella schedatura delle riviste («Ma che brava! Ce la fai tutta da sola! Come sei veloce! Hai imparato subito!»), il problema vero restava la pipì. Un’unica, una sola pipì, collocata per lo più a metà della mattinata. Chi mi doveva accompagnare non poteva farlo perché non assicurata, in qualità di personale di ruolo. E poi accompagnarmi giù e su avrebbe rappresentato un’interruzione del suo lavoro. Chi mi poteva accompagnare era invece una ragazza del servizio civile la quale, in virtù del suo ruolo di precaria, non doveva soggiacere a normative un po’ assurde.

Dopo qualche giorno qualcuno mi ha domandato se – per accompagnarmi al bagno a metà mattina – non poteva venire, appositamente, una studentessa delle 150 ore dall’Università. Io mi sono limitata a chiedere se fosse così complicato dotare il bagno di maniglie, come richiesto dalle norme per l’agibilità dei servizi pubblici. Verità dolorosa. Questo era il vero problema, ho capito. Ma, dopo un po’ di mugugno e dopo qualche giorno, come per magia le maniglie (che evidentemente da qualche parte erano) sono state installate: due bellissime maniglie per il bagno esterno di Castelvecchio, più una pedana per salire in Sala Boggian. Ciò che non era mai stato fatto, evidentemente, dopo anni si è fatto! Benissimo! Credo di aver portato un bel po’ di scompiglio con la mia presenza in carne, ossa e sedia a ruote….dopo anni che “si dovrebbe ma …”. Voilà! Subito ottenute. Come mi ha detto l’autista del servizio di trasporto, nostalgico del ’68, tempo della sua giovinezza: «hai fatto una rivoluzione per te e per tutti gli altri dopo di te».

Già perché le rivoluzioni non si dicono ma si fanno. E si concretizzano solo quando, con la propria presenza, non si può essere smentiti o disattesi. In più di un’occasione Vittorio Sgarbi ha fatto parlare di sé per essersi fatto aprire le sale di Castelvecchio fuori orario. Io non sono sicuramente Vittorio Sgarbi, ma ai tempi del mio stage nella Biblioteca d’Arte, ho fatto mettere le maniglie per rendere accessibile il bagno esterno alle persone con mobilità ridotta. Ai Vip basta dire «lei non sa chi sono io», ai comuni mortali tocca rompere le balle.

Tuttavia la mia esperienza di tirocinio è durata poco: due mesi e non sei come era previsto. Per prima cosa proprio in quel momento si avviava il trasferimento provvisorio della biblioteca nella torre del castello, per effettuare lavori di ristrutturazione, e nella torre io non potevo arrivare perché accessibile solo tramite una ripidissima scaletta interna. In secondo luogo mi sono accorta di essere un disturbo. Certo nessuno me lo ha detto in faccia, ma lo si capiva facilmente dagli atteggiamenti fin troppo cortesi, affettati e di gentilezza ostentata. Quasi mi si facesse un favore a tenermi lì e io non fossi una reale risorsa per il Museo. Il tirocinio è stato quindi prima sospeso – in attesa della conclusione dei lavori – e poi lasciato, anche da me, semplicemente cadere.

Un’ennesima conferma di quanto è accaduto ed accade spessissimo nei confronti dei soggetti con disabilità. Quante volte ho dovuto assistere io stessa a queste dinamiche: «Però sei intelligente!», «Quante cose capisci/fai malgrado tutto!». È perciò che da me esigo sempre il massimo (essendo diventata severissima ed intransigente con me stessa), volendo dimostrare di valere quanto e magari anche più degli altri, per combattere il radicato pregiudizio – dai tempi dei tempi – secondo cui i disabili “hanno tanta volontà”, “fanno quello che possono” , “ci arrivano ma fino ad un certo punto”, “non si può pretendere più di tanto da loro”. Questo ha un nome, si chiama abilismo intellettuale.

È poco affrontato, perché tutti si concentrano sulle cose più evidenti e materiali come l’abbattimento delle barriere architettoniche. Ma c’è anche una forma di abilismo più sotterranea e subdola che ha, per chi la subisce, un prezzo psicologico altissimo e l’assunzione, come meccanismo di difesa, di atteggiamenti che all’esterno appaiono altezzosi e presuntuosi. Si attacca per non venire feriti dall’ignoranza, dalle barriere mentali che si incontrano, con cui ci si trova a fare i conti, in primis nelle famiglie in cui si è nati e poi nel mondo. Contro cui combattere è durissima perché spesso le false convinzioni di cui si nutre l’ignoranza, sono tramandate di generazione in generazione. Ma tengo (superbamente) la testa alta!.

Proprio su questo tema, dalla mia esperienza vissuta a riguardo, dal viverlo tuttora con maggior consapevolezza ed attenzione, deriva la mia battaglia contro l’abilismo intellettuale. Benissimo occuparsi di barriere architettoniche, benissimo riconoscere alle persone con disabilità i loro diritti e la loro vita sessuale ma, a monte, chi è in condizione di disabilità deve essere preso sul serio, deve vedersi riconosciuta una sua autorevolezza, una sua professionalità potendo smarcarsi così dalla condizione di minorità che suo malgrado – e senza permesso – viene attribuita a prescindere, a partire dalla disabilità, senza avere la possibilità di smentire, di dimostrare il proprio valore.

Siamo chiari: esiste oltre al razzismo, all’omotransfobia, al maschilismo, tra le forme di discriminazione: l’abilismo. Cos’è? È l’atteggiamento discriminatorio – a volte subdolo e sottile, a volte palese ed evidente – messo in atto dai cosiddetti normodotati o abili nei confronti dei soggetti con disabilità, in base a se stessi, in quanto rispettanti canoni imposti dalla società e per questo accettati – come metro di paragone e giudizio.

Alla base sta il compatimento, le carezze non richieste, le confidenze da sconosciuti. E poi certo i posti dedicati di socializzazione, le barriere architettoniche, le opportunità minori. Ma questo per un’altra forma di abilismo molto diffusa e poco presa in considerazione: il non aspettarsi più di tanto dai soggetti con disabilità, dando per scontato, quasi fosse una logica, ineludibile conseguenza della condizione di disabile, “arrivarci, ma fino ad un certo punto”. Combatto – in quanto subita alla scuola media, con gravissime conseguenze psicologiche ed esistenziali – questa subdola forma di abilismo con la mia ambizione, con il fatto di non volermi accontentare per forza “perché guarda quante belle cose hai” e con il non far in modo che le mie aspettative su me stessa e sulla mia vita siano e/o vengano compresse in qualsiasi modo. Sono grata per quello che ho ma voglio sentirmi libera di puntare a dove so di poter realizzare appieno le mie capacità intellettuali. Sono infatti del parere che, soprattutto in quanto donna oltre che disabile, sia preciso ed ineliminabile dovere etico e civile difendere non solo il diritto di decidere riguardo al proprio corpo ma anche riguardo al proprio cervello.

Chiedo scusa quindi se talvolta posso apparire presuntuosa o altezzosa, una che mette in mostra il fatto che veda gente e faccia cose ma ci tengo fermamente ad andare contro ogni forma di abilismo intellettuale e culturale. Ed i social network, se a qualcosa servono, sono proprio le battaglie civili. Soprattutto quelle invisibili come opporsi all’abilismo intellettuale: visibile e praticato da molti, invisibile in quanto conosciuto e combattuto da – finora ancora, purtroppo – troppo pochi.

Da qui, a parer mio, può nascere un modo nuovo di vedere e di vivere le condizioni di apparente svantaggio. Tutti siamo risorse, ciascuno a modo suo, con le caratteristiche proprie che costituiscono l’unicità di esseri umani. E che devono emergere. E personalmente la mia lotta sta in questo. Lottare perché le capacità intellettuali, culturali delle persone con disabilità trovino terreno fertile per affiorare ed esprimersi al meglio in tutte le loro potenzialità, finora messe a tacere ed ignorate da una società che preferisce che chi ha meno, debba solo rendere grazie di ciò che viene dato perché se alza la testa, tiene la schiena dritta e va controcorrente al pensiero e modo di fare comune, è spocchioso…

Ho imparato a mie spese che l’umiltà è ottima cosa fintanto che non diventa accontentarsi, il non dire diventa sopportare tutto e farsi andare bene qualunque cosa perché è quello che passa il convento. La vita mi ha fatto diventare così, scusate. È l’unico modo per sopravvivere rimanendo fedele a ciò che con fatica – e, per la maggioranza, ovvio e scontato – ho conquistato. A partire dalle mie opinioni. Se urtano qualcuno, sono già sulla buona strada: sono criticata e non compatita.

Silvia Migliaccio