Una riflessione di Caterina Bortolaso, giovane giurista e consigliera di Traguardi in seconda circoscrizione, sul rapporto fra l’assetto istituzionale previsto dalla nostra Costituzione e la normativa prodotta durante l’emergenza.

In questi giorni di indiscutibile quanto inedita emergenza sanitaria, le nostre società di stampo liberale si trovano a sperimentare rilevanti compressioni delle libertà personali garantite dalla Costituzione. In particolare, dalla dichiarazione dello stato di emergenza, avvenuta in data 31 gennaio 2020, abbiamo assistito a una progressiva limitazione della libertà di riunione e manifestazione, al fine di evitare assembramenti, accompagnate da una sempre più stringente compressione della libertà di movimento, dapprima unicamente nelle zone rosse individuate dall’esecutivo, e successivamente estesa all’intero territorio nazionale, giungendo a vietare qualunque tipo di spostamento non giustificato da esigenze lavorative e sanitarie. Contemporaneamente, è stata imposta la chiusura delle scuole di ogni ordine e grado, nonché, successivamente, il divieto di celebrare funzioni religiose. Anche la libertà d’impresa ha subito forti compressioni, fin dal principio in relazione all’ambito culturale e all’intrattenimento, per poi estendersi a tutte le attività e i servizi, ad eccezione di quelli classificati come “essenziali”. Inoltre, sulla scorta di pratiche provenienti da Paesi che hanno affrontato con successo l’epidemia, nelle ultime settimane si parla di sperimentare consistenti limitazioni al diritto alla privacy al fine di monitorare gli spostamenti, attraverso l’utilizzo di droni, nonché tramite la raccolta dei dati GPS dei dispositivi mobili.

È la stessa Carta fondamentale a prevedere la limitazione delle libertà che al contempo garantisce, ma ciò a condizione del rispetto di specifici presupposti formali e sostanziali.

Dal punto di vista formale, la Costituzione prevede che le libertà fondamentali da essa sancite possano essere limitate esclusivamente ricorrendo allo strumento normativo di rango primario, ovvero tramite l’emanazione di una legge o, quanto meno, di un atto avente forza di legge. È bene notare che la previsione di una riserva di legge è intrinsecamente legata al principio di legalità, pilastro dello stato di diritto, e non si risolve in una questione procedurale fine a sé stessa. Il procedimento legislativo ha infatti un significato pregnante, perché comporta che decisioni incidenti su interessi privati di rilievo costituzionale debbano essere approvate dall’organo democratico per eccellenza, il Parlamento, nella dialettica tra le forze di maggioranza e le minoranze.

A riguardo, diverse voci hanno sollevato perplessità circa la legittimità dello strumento utilizzato dal Governo fin dalla primissima fase di gestione dell’emergenza, i D.P.C.M (Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri). Trattasi di ordinanze appartenenti alla categoria delle ordinanze contingibili e urgenti in materia di protezione civile, ovvero di particolari atti amministrativi ai quali l’ordinamento consente di derogare, eccezionalmente, a disposizioni di legge, ma che restano comunque soggetti al rispetto dei principi dell’ordinamento giuridico, in primis pertanto ai principi costituzionali e di diritto comunitario. Pertanto, il fatto che tali atti incidano su materie coperte da riserva assoluta di legge è stato ed è tuttora oggetto di dibattito. Ciò in quanto è discussa la legittimità stessa del decreto-legge a fondamento dell’adozione delle prime ordinanze, in primis per la mancanza di un’autorizzazione legislativa concernente l’estensione all’intero territorio nazionale delle limitazioni alle libertà costituzionali inizialmente previste per le sole “zone rosse” (in principio individuate nell’intera regione Lombardia, in alcune province di Veneto, Emilia-Romagna e Piemonte e nella provincia di Pesaro Urbino). Il decreto legge n. 6 del 23 febbraio 2020, infatti, prevedeva la possibilità di adottare, su base locale, diverse misure per contrastare l’emergenza sanitaria, elencate a titolo esemplificativo, ma accompagnate da una clausola aperta che, genericamente, consente l’adozione di “ulteriori misure di contenimento e gestione dell’emergenza, al fine di prevenire la diffusione dell’epidemia”. Una sorta di delega in bianco, in violazione del principio di tipicità, che, seppur mitigato in situazioni di emergenza, rimane comunque presupposto imprescindibile per l’adozione delle ordinanze suddette, congiuntamente alla previsione legislativa di una limitazione territoriale e temporale delle stesse, anch’essa, per le ragioni suddette, mancante.

Ad ogni modo, tale asserito contrasto con l’ordinamento parrebbe oggi sanato dall’emanazione del Decreto-legge n. 19 del 25 marzo 2020 recante “Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19”, con il quale si è provveduto a riordinare, in un elenco tassativo, le misure fino a quel momento adottate e a introdurne di nuove su base nazionale, prevedendo peraltro una sanzione amministrativa per i trasgressori, in luogo della precedente sanzione penale. Inoltre tale ultimo decreto ha specificamente introdotto la facoltà per le regioni di adottare misure più restrittive nelle materie di loro competenza, nonché per i Sindaci di adottare ordinanze contingibili e urgenti, con gli stessi limiti oggettivi delle misure regionali, e purché non in contrasto con le misure statali.

Nonostante tale tentativo di sistematizzazione, l’adozione di atti normativi e amministrativi da parte del Governo continua a tenere un ritmo del quale il Parlamento non può, inevitabilmente, reggere il passo, cui si somma la proliferazione di ordinanze regionali e comunali, che si sono man mano sovrapposte alla normativa nazionale. Tale groviglio di fonti ha finito per creare non poca confusione sulla normativa di volta in volta applicabile: un esempio a noi vicino è quello della previsione del limite massimo dei 400 metri di distanza dalla propria abitazione, prevista per ordinanza del Sindaco di Verona, contrapposta ai 200 metri imposti dall’ordinanza regionale, contrasto che ha necessitato di una specifica presa di posizione da parte del Sindaco Sboarina a favore della misura più restrittiva. La stessa situazione si è poi riproposta con l’adozione dell’ordinanza della Regione Veneto del 13 aprile, che ha eliminato il suddetto limite dei 200 metri, per tornare ad applicare il limite nazionale della “prossimità dell’abitazione”. A volte, peraltro, interventi a scopo chiarificatore hanno generato ulteriori fraintendimenti, come la circolare del 31 marzo diffusa dal Ministero dell’Interno al fine di precisare il concetto di “attività motoria”, includendo all’interno di questa locuzione attività che Presidenti di Regione e Sindaci hanno invece espressamente vietato o sottoposto a limiti più stringenti, come le passeggiate con i bambini, e invece escludendo attività sulle quali i Sindaci sembravano aver lasciato un maggior margine, come il jogging. Anche in quest’ultimo caso, peraltro, si è rivelata necessaria una netta presa di posizione verbale da parte del Sindaco Sboarina, che ha confermato il divieto di svolgere attività sportiva, come da circolare del Ministero dell’Interno.

Per quanto concerne poi il limite sostanziale, è doveroso premettere che le libertà costituzionali possono essere limitate esclusivamente per ragioni di tutela di beni ritenuti, dalla stessa Carta costituzionale, di interesse preminente. È il caso di salute e sicurezza pubblica, in nome dei quali possono essere previste limitazioni, ai sensi dall’art. 16 della Costituzione, alla libertà di movimento e ugualmente, a mente dell’art. 17 della stessa Carta Fondamentale, alla libertà di riunione. A tal proposito, si evidenzia tuttavia che ciascuna limitazione di un diritto deve trovare adeguata giustificazione nel bilanciamento con altri diritti, operazione svolta secondo i criteri di ragionevolezza e proporzionalità. Nella celebre sentenza ILVA, la nostra Corte costituzionale ha chiarito che non esiste e non può esistere un diritto assoluto, perché «se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona». Se è vero, quindi, che il diritto alla salute, sancito dall’art. 32 della Costituzione, è un bene primario che non può essere sacrificato, è altrettanto vero che non esiste una gerarchia assoluta tra i diritti costituzionali e che il punto di equilibrio con altri interessi deve essere valutato volta per volta affinché non ne venga minato il nucleo essenziale. È bene, pertanto, oggi più che mai, tenere a mente che in un ordinamento democratico non sono ammissibili “diritti sospesi”, nemmeno a fronte di un bene primario come la salute pubblica.

Autorevoli opinioni rilevano poi l’assenza nel nostro ordinamento di un sistema di garanzie costituzionali adeguato a gestire le situazioni di emergenza. La nostra Costituzione, infatti, disciplina puntualmente solo lo stato di guerra, ma non lo stato di emergenza, che è invece normato da una fonte legislativa, ovvero la legge 225 del 1992 sulla Protezione civile. Se è pur vero che non si tratta di una lacuna normativa, ma di una precisa scelta operata dalla Costituente, è altrettanto condivisibile il rilievo per cui questa situazione ci esorta a rivalutare l’opportunità di escludere questa previsione, anche nell’ottica di garantire una maggiore rappresentatività (e conseguente democraticità) delle decisioni prese in stato di emergenza. Non si tratta solo di disciplinare il funzionamento del Parlamento a distanza, misura anch’essa essenziale, ma di ripensare i poteri, magari seguendo gli esempi di altri ordinamenti a noi vicini, come quello spagnolo e tedesco, nei quali è prevista la costituzione di una commissione parlamentare ad hoc, che prenda le funzioni del Parlamento.

La mancanza di una disciplina puntuale dello stato di emergenza, inoltre, può avere risvolti da non sottovalutare anche nella fase post-epidemia. Svincolate da un chiaro perimetro di riferimento, le disposizioni emergenziali, per natura straordinarie, rischiano di insinuarsi stabilmente nell’ordinamento, prolungando i loro effetti ben oltre la contingenza. In questo modo l’eccezionalità diverrebbe insidiosamente ordinaria, e il pieno godimento dei diritti inviolabili, principio fondamentale, degraderebbe a mera concessione del Governo (sia esso centrale o locale). Al fine di scongiurare tale scenario, si rivelerà ancora una volta fondamentale vagliare in concreto la legittimità delle misure restrittive in ogni fase dell’epidemia, ispirandosi ai suddetti criteri di proporzionalità e ragionevolezza, nonché rimanere vigili sulla loro eventuale permanenza quando la situazione in nome della quale sono state previste, come si auspica, volgerà al termine.

Del resto, allo stato attuale, ogni previsione sul post-epidemia è più che mai ipotetica. L’emergenza sanitaria che stiamo vivendo è, infatti, doppiamente inedita: la nostra Repubblica si trova a fronteggiare la prima epidemia della sua storia, al contempo fungendo da apripista per le altre democrazie occidentali. L’Italia ha quindi dovuto elaborare e proporre una propria strategia di lotta all’epidemia, mutuando dalle esperienze estere (prevalentemente asiatiche), le sole pratiche conformi al proprio ordinamento. A riguardo, è indubbio che il cosiddetto “modello Wuhan”, pur invocato per la sua efficacia, si basi su una dinamica potere-cittadino propria di uno stato totalitario, e che, pertanto, non possa essere integralmente riprodotto nella nostra democrazia. Ugualmente può dirsi per la limitazione della privacy attuata in Corea del Sud attraverso il controllo degli spostamenti tramite GPS, misura difficilmente replicabile in una società liberale, senza pervenire a un’indebita compressione di un diritto che oggi trova copertura a livello costituzionale ed europeo. Lo stesso Garante della protezione dei dati personali ha espresso fondate preoccupazioni a riguardo, auspicando che qualunque limitazione della privacy venga posta in essere attraverso una precisa normativa, evitando iniziative “fai-da-te” nella raccolta dei dati.

In conclusione, risulta evidente che il contenimento dell’epidemia possa trovarsi in potenziale contrasto con un fondamento della nostra democrazia: il principio personalistico sancito dall’art. 2 della Costituzione, chiave di volta del passaggio dal Fascismo alla Repubblica. Citando le parole della stessa Costituente esso rappresenta il «riconoscimento dell’anteriorità della persona rispetto allo Stato, il riconoscimento della socialità della persona, destinata a completarsi e a perfezionarsi mediante una reciproca solidarietà economica e spirituale». Ed è proprio nella solidarietà che troviamo il pilastro del nostro ordinamento democratico nella situazione odierna, in cui il rispetto delle regole da parte di tutti ha un peso cruciale nell’evolversi dell’epidemia. Nonostante le incertezze iniziali, può dirsi che la risposta italiana sia stata, nel complesso, adeguata, non solo da parte delle istituzioni, ma anche e soprattutto da parte dei cittadini. Ma è importante tenere a mente che l’opinione pubblica non può e non dovrebbe mai sostituirsi alla Costituzione.

Se è vero, quindi, che ora è il momento di accantonare le polemiche, rimane comunque un dovere, per lo meno per gli operatori del diritto, prestare attenzione agli scricchiolii del nostro ordinamento. Diverse questioni giuridiche rimangono aperte e anche da esse, sconfitta l’epidemia o convivendoci, dovremo ripartire.

Caterina Bortolaso