«Il PM10 contribuisce a veicolare l’infezione da coronavirus»

«Le aree più inquinate della pianura padana sono anche le più colpite dall’epidemia»

Sono titoli di articoli e interventi che, negli ultimi giorni, hanno avuto larga circolazione su social e stampa nazionale. Al centro, l’idea che il PM10 contribuisca direttamente a diffondere il virus e, quindi, che non sia un caso se proprio in Lombardia, una delle zone più critiche dal punto di vista dell’inquinamento da PM10, si siano avuti i primi e più violenti focolai.

Tutto è partito da un position paper (Relazione circa l’effetto dell’inquinamento da particolato atmosferico e la diffusione di virus nella popolazione), sottoscritto da diversi esperti delle Università di Milano, Bari, Bologna e della Società di Medicina Ambientale, che ha correlato i dati dei superamenti del limite giornaliero della concentrazione di PM10 (pari a 50 ug/m3) a livello provinciale e i casi di coronavirus. Pochi giorni dopo è arrivata un’autorevole precisazione (forse sarebbe più corretto chiamarla confutazione) da parte della Società italiana Aerosol (http://www.iasaerosol.it/it/).

Giustamente, gli esperti della IAS hanno sottolineato il fatto che le conoscenze sulla diffusione del virus, sulla sua sopravvivenza in diverse condizioni ambientali sono ancora limitate, e che i dati a disposizione sono ancora pochi. Anche le conoscenze epidemiologiche sono ancora scarse, o meglio aumentano di giorno in giorno insieme, purtroppo, alla diffusione del virus ed è quindi poco opportuno trarre conclusioni affrettate e corroborate da pochi dati oggettivi.

Sappiamo già molte cose, ma non tutto, sulle polveri sottili: come si formano, il tempo di persistenza nell’atmosfera, come si diffondono, da cosa sono formate. Le particelle che compongono il particolato non sono solo sostanze quali metalli, silice, idrocarburi, carbonio, composti organici, vapor d’acqua. Anche polline, virus e batteri trovano ospitalità sul PM10 che funziona così da “carrier”, ossia da veicolo per la loro diffusione. Studi diversi, condotti da ricercatori europei e cinesi, hanno analizzato la correlazione fra PM10 e diffusione di agenti virali. L’ultimo, in ordine cronologico, citato anche dal position paper, è uscito nel 2020 (https://doi.org/10.1007/s11356-020-07903-4): ricercatori cinesi hanno analizzato il ruolo delle polveri sottili e di altri fattori meteorologici nella diffusione del morbillo in Cina nel periodo 2005-2009. Dieci anni di dati, una malattia ben conosciuta contro un virus nuovo e poche settimane di dati. Direi che non c’è molto altro da aggiungere sulla robustezza delle conclusioni del position paper.

Sappiamo ancora poco sul coronavirus.

Riassumendo:

  1. L’esposizione a concentrazioni elevate di PM10 aumenta il rischio di malattie cardiovascolari e polmonari. Questo può peggiorare la condizione dei pazienti affetti da coronavirus
  2. Alcune condizioni meteorologiche quali bassa temperatura, elevata umidità che caratterizzano il periodo invernale in pianura Padana favoriscono la formazione di particolato e favoriscono anche la diffusione di malattie respiratorie

Quello che NON sappiamo, o perlomeno che non conosciamo con certezza

  1. La persistenza del virus, ovvero la sua capacità di mantenere la carica virale nel tempo e nelle diverse condizioni ambientali
  2. I dati epidemiologici sono ancora pochi, non sappiamo ancora quali sono i fattori, non solo ambientali, che determinano la diffusione del contagio

Solo una sterile polemica fra scienziati? No, la discussione e il confronto fanno parte della ricerca scientifica. Sicuramente dovrà essere approfondito il nesso, se nesso esiste, fra concentrazione di particolato e diffusione del coronavirus. Allo stato attuale non però è opportuno affermare che vi sia un nesso causale senza dati sperimentali sufficienti.

Gruppo ambiente Traguardi